QUEL 3 SETTEMBRE 1989

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Ero un ragazzino la sera del 3 settembre del 1989 quando Sandro Ciotti annunciò la morte di Gaetano Scirea in diretta, alla Domenica Sportiva.
Aspettavo il servizio sul Napoli, quella domenica battemmo uno a zero l’Udinese, gol di Renica. Ero già in pigiama che la mattina seguente dovevo partire all’alba per Roccaraso, andavo in ritiro con gli esordienti del Napoli.
La giuve già la schifavo, era un qualcosa trasmessomi da piccolissimo, da mamma principalmente, ma anche da papà e soprattutto dal San Paolo. Non si trattava di scelta, ma di DNA.
Se eri tifoso del Napoli così era, pochi cazzi.
Però rimasi in silenzio. Così anche mamma.
La mattina dopo, in attesa di salire sul pullman, Ruffino, egocentrico e polivalente centrocampista classe ‘75, raccontando quanto avvenuto la sera precedente in merito alla scomparsa di Scirea, parló di esultanza, di gioia. Proprio così, di gioia.
Non capii, ma non mi piacque.
Il mio aspetto creava spesso equivoci nei miei interlocutori.
Piccolo, biondissimo, faccia vomerese.
Ciò che era imperscrutabile era l’anima di periferia, l’indole randagia di chi viveva a Miano, la rabbia pronta ad esplodere nascosta in quella faccia da bambino perbene.
Perbene lo ero, ma anche incazzato il giusto, e determinato, determinatissimo.
“Emilià, stai parlann assaj” Non recepì.
Presi la borsa e gliela chiavai addosso.
“ E mo’ chiur’ ’o cess’ ca te spacc’ ‘a cap’ “
Ieri sera ho rivisto le due puntate che Federico Buffa ha dedicato a Gaetano Scirea ed ho pensato a quella sera, a quella mattina.
Ho pensato ad Emiliano e cercato di capire cosa potesse portare un bambino, quello eravamo, bambini, ad esultare per la morte di un uomo.
Un uomo che rappresentava la giuve, ma un uomo.
Un uomo perbene.
Ed allora ci si chiede se sia ancora possibile commuoversi tracciando una linea di demarcazione tra le storie ed i colori, rispettare gli uomini decontestualizzandoli da ciò che rappresentano.
Io l’ho fatto ascoltando il fratello di Gaetano Scirea, Paolo, mentre raccontava degli anni in cui non c’era la tv e si andava a casa di chi ne aveva una nelle serate di coppa, di un papà che lavorava in fabbrica e che non poteva permettersi la San Siro nero azzurra.
Di un uomo che la sera in cui alzò la coppa del mondo scelse di non avvelenare il momento in una discoteca ma preferendo rimanere con un pezzo di reminiscenza 1926, Dino Zoff, a fumare una sigaretta ed a bere un bicchiere di vino, che “Avevamo già toccato il cielo con un dito, ci sembrava abbastanza, ecco. “
Ecco.
Un uomo che tra tutte le vittorie ha individuato come momento catartico della propria vita il diploma preso a trenta e passa anni, come regalo a suo papà ed a se stesso.
Scirea è la giuve ed io sono 1926, sono 1926 nell’anima, nel sangue, nella testa, nel passato e nel futuro, ma ci sono dei pezzi, dei piccolissimi pezzi di vita, in cui le storie possono incontrarsi, e la storia di Gaetano Scirea, per me, è uno di questi.
McBlu76 – La Napoli Bene

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